Che aroma di storia, questo caffè!
«A riempire una stanza basta una caffettiera sul fuoco».
I tre cavalli, 1999, Erri de Luca
L’espresso è la base di ogni caffè non filtrato, la forma più pura della bevanda, nonché la chiave per capire la cultura del caffè in Italia.
È internazionalmente noto, infatti, che il caffè in Italia – e il gesto stesso di bere il caffè – è diverso da tutto il resto del mondo. Non è un mistero che molte grandi catene di coffee shop americani ed europei abbiano aperto le loro sedi in Italia senza tuttavia riscuotere il successo degli altri paesi.
Per darvi un’idea di quanto sia “italiano” l’espresso, vi basti sapere che molti turisti in procinto di visitare il Bel Paese si informano preventivamente sul modo migliore di bere il caffè “proprio come un vero italiano”, incuriositi e timorosi di varcare il confine della casa spirituale di questa bevanda.
Agli italiani, insomma, piace espresso.
Ma perché siamo tanto legati al nostro modo di bere il caffè?
Una delle principali ragioni che hanno portato l’Italia a diventare la Signora dell’Espresso è il fatto che la prima vera macchina per l’espresso sia figlia di un torinese, Angelo Moriondo.
Moriondo non fu il primo a sperimentare un macchinario simile, anzi: all’Esposizione Universale di Parigi del 1855, in piena rivoluzione industriale e con tanta voglia di innovazione, il francese Louis Bernard Babaut esibì la prima macchina per l’espresso… che rischiò quasi di scoppiare!
All’Expo di Torino del 1884, Moriondo ha l’idea geniale di presentare non una semplice macchina per il caffè, ma una vera e propria “sforna-caffè” in serie, in piena linea con i nuovi standard industriali.
Sarà tuttavia solo qualche anno più tardi che la macchina per l’espresso avrebbe visto davvero la luce: il milanese Luigi Bezzera, dopo aver rivisto il progetto originale di Moriondo, presenta all’intero continente la sua macchina per il caffè a vapore, che tuttavia era ancora molto complessa da utilizzare.
Negli anni successivi ci sarebbero stati molti altri tentativi di perfezionamento, dalla macchina verticare con il fornello a gas di Desiderio Pavani al prodotto di design di Pier Teresio Arduino.
Il progetto di Pavoni del 1905
La macchina per l’espresso rimase comunque complessa da utilizzare fino al 1938, con l’avvento di Gaggia e della prima macchina a pressione. Nello stesso periodo, la tendenza del movimento fascista di “italianizzare” le parole estere, trasforma l’allora noto barman in un “barista”: da allora la figura del caffè espresso e del barista italiano sono sempre andate saldamente a braccetto.
Altre importanti migliorie arriveranno nel immediato dopoguerra, con l’introduzione delle prima macchine con la pressione manuale e con l’avvicinarsi a un range di prezzi più alla portata dei proprietari di bar. E poi, finalmente, arriva la famosa Faema E61, madre di tutte le nostre moderne macchine per l’espresso.
La prima Faema E61, di cui recentemente l’azienda ha messo sul mercato una versione rimodernata.
Ma l’espresso non è tutto!
No, non lo è – e tutti gli italiani lo sanno. Prima dell’avvento dei bar, prima della rivoluzione industriale, prima di Gaggia e delle macchine della Faema, è nata lei: l’italianissima moka inventata da Alfolso Bialetti.
La moka non è naturalmente la prima caffettiera della storia.
La più antica è l’ibriq, un pentolino alto e stretto in rame con un lungo manico che viene tutt’oggi usata nei paesi arabi. Nel 1806 Benjamin Thompson brevettò la prima caffettiera a filtro, ancora diffusissima negli Stati Uniti e nell’Europa centrale e, ancora in Italia, nacque la prima caffettiera a stantuffo.
Un’altra storica caffettiera è la storica napoletana (cuccumella in dialetto). A discapito sia del suo nome che della sua diffusione, tuttavia, la napoletana fu un invenzione del francese Morize, ma è ormai chiaro che gli italiani si sono dimostrati amanti del caffè ben più dei loro cugini oltralpe (e non a caso furono proprio i napoletani a perfezionarla).
Quale di queste macchine da caffè hanno ispirato Bialetti per la sua prima moka?
La lavatrice.
Eh, sì. Nei primi anni Trenta, in Italia si usava la lisciveuse (da liscivia, che era un economico detersivo), una grossa pentola dotata di un tubo con la parte superiore forata in modo da far uscire il vapore generato dall’ebolizzione dell’acqua, grazie al quale si scioglieva il detersivo – la liscivia, appunto. Osservando la moglie lavare i panni, Bialetti ebbe l’idea di trasformare il meccanismo della lisciveuse in qualcosa che potesse portare il caffè espresso nelle case di tutti gli italiani.
Il progetto di Bialetti era, nella sua semplicità, talmente perfetto da non aver praticamente subito alcun cambiamento significativo negli ultimi ottant’anni. Per quanto riguarda il design, poi, la moka italiana è un pezzo di collezione perfino al MoMa di New York.
Il progetto di Bialetti del 1933 | Fonti: Bialetti
È ovvio, quindi, che in Italia il caffè si sia evoluto in un modo del tutto diverso rispetto agli altri paesi, mescolandosi con la sua storia e la sua società come poche altre bevande.
Il caffè va oltre il suo sapore: è una pausa, un break della giornata. Difatti è “espresso” per davvero, ed diventato quasi un modo di dire. “Giusto il tempo di un caffè” o “Prendo un caffè e arrivo” sono frasi all’ordine del giorno. Il caffè è anche condivisione, perché spesso viene usato come scusa per organizzare incontri e chiecchierate. “Ci prendiamo un caffè?” è un’altra frase tipicamente italiana.
E poi il caffè è discussione. Oh, sì: il caffè italiano è continuamente sottoposto al giudizio dei clienti. Troppo amaro, troppo dolce, troppo alto, troppo ristretto, con poca crema, con molta crema…
Rinunciare a un caffè, per gli italiani, è impensabile.